L’uso di antibiotici in Odontoiatria

Dal momento della loro scoperta, l’uso degli antibiotici è stata l’arma migliore per combattere le infezioni e curare determinate patologie. Eppure, la sovraesposizione nel corso degli anni ha messo in discussione la loro efficacia.

Nel 1901 il batteriologo tedesco Paul Ehrlich sviluppa un farmaco derivato dall’arsenico organico a cui dà il nome di “Composto 606”, meglio conosciuto come Salvarsan, attivo contro la sifilide e la febbre ricorrente. È il primo composto sintetico usato per combattere una malattia infettiva. Tuttavia, deve trascorrere ancora qualche anno prima che il Dott. Alexander Fleming scopra accidentalmente come il fungo Penicillium notatum sia in grado di inibire la crescita dei batteri. La penicillina G è stato il primo antibiotico con efficacia terapeutica ad essere utilizzato in campo medico a partire dal 1942, che ha rivoluzionato la cura delle malattie infettive nella prima metà del XX secolo, quali la febbre scarlatta, la polmonite, la gonorrea e le infezioni da stafilococco. È una scoperta che ha segnato l’inizio dell’età aurea degli antimicrobici. Tuttavia, attualmente, il meccanismo che determina la comparsa di nuove molecole antimicrobiche (naturali o semisintetiche) sta attraversando una notevole rallentamento. L’abuso delle terapie antimicrobiche, l’uso scorretto e la facilità con cui i batteri si adattano a queste molecole creando resistenza, sono i fattori principali che hanno determinato l’inutilità di alcuni antibiotici scoperti nel secolo scorso e di recente.

Lo sbrigliamento meccanico del biofilm orale e l’eliminazione dei fattori irritanti locali sono la base delle terapie parodontali. Tuttavia queste azioni hanno dei limiti, quali: l’incapacità di accedere alle zone profonde e/o tasche irregolari, di eliminare agenti patogeni localizzati nelle nicchie ed effetti secondari non desiderati come la recessione gengivale, la perdita di smalto e/o dentina, le sinestesie, ecc.

Attualmente in odontoiatria gli antibiotici vengono somministrati nella cura della malattia parodontale e nel trattamento preventivo

Gli antibiotici vengono prescritti per determinate forme di parodontite e per alcuni pazienti. Nei trattamenti preventivi, la profilassi antibiotica è stata giustificata come tentativo di prevenire la batteriemia e l’eventuale endocardite batterica.  Attualmente un numero crescente di ricercatori sostiene che sia necessario eseguire una revisione della procedura di profilassi antibiotica, soprattutto se consideriamo che statisticamente la probabilità di provocare una endocardite infettiva con un’estrazione, anche in pazienti cardiopatici, è di 1 su 3000.  Gli autori raccomandano, inoltre, l’uso di antisettici orali efficaci per evitare la sovraesposizione del paziente agli antibiotici che, d’altra parte, hanno un’efficacia sempre più discussa.

Il presente lavoro è un compendio degli antibiotici principali usati in odontoiatria, dei loro meccanismi di azione e dei principali meccanismi di resistenza che i batteri hanno sviluppato contro di essi.

Antibiotici ß-lattamici

I ß-lattamici sono gli antibiotici usati per la cura di infezioni causate da enterobatteri. Per bocca, l’amoxicillina (aminopenicillina) è uno dei più utilizzati. Questa famiglia di molecole sono agenti batteriolitici che provocano la lisi dei batteri. Svolgono la loro azione sulla parete cellulare nel processo di crescita, inibendo l’ultima fase della biosintesi del peptidoglicano, nella quale avviene la formazione di legami crociati, in una reazione conosciuta come transpeptidazione. Le penicilline e altri antibiotici ß-lattamici si legano covalentemente agli enzimi transpeptidasi e carbossipeptidasi che catalizzano la reazione di transpeptidazione. L’inattivazione di questi enzimi impedisce la formazione dei legami crociati sulla parete cellulare batterica, che si traduce in un rilasciamento maggiore del rivestimento e in una lisi cellulare, frutto delle forze osmotiche e meccaniche che agiscono sulla parete.

Il più frequente e sconcertante meccanismo di resistenza agli antibiotici ß-lattamici, nei batteri Gram negativi, è l’idrolisi enzimatica dell’antibiotico.  Questa reazione è provocata dai ß-lattamici, che sono enzimi che agiscono in uno spazio periplasmatico. L’abbondanza e la diversità di questi enzimi, sintetizzati dal batterio stesso, ha reso necessario lo sviluppo di diversi sistemi di classificazione in funzione della loro struttura molecolare o secondo il tipo di ßlattamico che idrolizzano.

Metronidazolo

È una molecola di sintesi chimica scoperta nel 1959 per la cura di infezioni da Trichomonas vaginalis, ma possiede anche un’elevata attività batterica contro i bacilli anaerobi e microaerofili.  Combinato con altri antibiotici, viene utilizzato per eradicare l’Helicobacter pylori. Inoltre, il metronidazolo combinato con l’amoxicillina è la terapia antibiotica sistemica indicata per pazienti con parodontite aggressiva con effetti positivi nella maggior parte degli studi svolti. Il metronidazolo penetra nelle cellule batteriche per diffusione passiva sottoforma di profarmaco.  Una volta dentro viene attivato grazie all’azione della ferredossina, un enzima che fa parte della catena di trasporto degli elettroni del batterio.

L’enzima prende gli elettroni che si stanno trasportando nella catena e li cede al metronidazolo inattivo. Il farmaco si attiva per riduzione del gruppo nitro. La struttura del metabolito attivo non è ancora nota, ma in base alle caratteristiche della sua reattività si ipotizza che è un radicale libero o un’altra molecola fortemente elettrofila. Sembra che l’effetto battericida del metronidazolo attivato avviene per indurre la denaturazione del doppio filamento di DNA e per un’ampia rottura non riparabile dei monofilamenti.

Nonostante la maggior parte degli agenti patogeni parodontali siano sensibili al metronidazolo, è stata riscontrata una certa resistenza determinata dall’alterazione degli enzimi coinvolti nell’attivazione intracellulare del farmaco. Inoltre, tra le specie extraorali del genere dei Bacteroides, sono stati identificati quattro geni (nimA, nimB, nimC e nimD) che conferiscono resistenza a questo antibiotico.

Lincosamidi

Questa famiglia di antimicrobici include solo due molecole: la lincomicina, isolata da una coltura di fermentazione di Streptomyces lincolnensis nel 1962 e una trasformazione chimica di questa stessa molecola eseguita nel 1966 che ha dato vita alla clindamicina. Quest’ultima è quattro volte più potente della prima, possiede una capacità di assorbimento maggiore e raggiunge concentrazioni elevate nei fagociti degli ascessi, ottenendo livelli molto alti nei tessuti infiammati. Questa molecola si attiva contro i batteri aerobi gram positivi e contro quelli anaerobi gram positivi e gram negativi. I lincosamidi sono fondamentalmente batteriostatici e la loro attività battericida dipende dalla concentrazione. Agiscono inibendo la sintesi delle proteine, che interferisce con la funzione del ribosoma batterico in seguito al legame con la subunità ribosomiale 50S. Si consiglia l’uso in casi di allergia ai ß-lattamici. La combinazione di clindamicina con un amminoglicosido è la terapia usata per infezioni miste da anaerobi e aerobi.

La scoperta di antibiotici nuovi è legata alla comparsa di ceppi batterici resistenti, che obbliga a una ricerca continua di molecole antimicrobiche nuove.

La resistenza batterica alla clindamicina è dovuta all’alterazione del bersaglio: si produce la metilazione della subunità ribosomiale in modo che la clindamicina non può interagire con la suddetta subunità.

Ogni antibiotico utilizzato nella terapia parodontale deve possedere attività in vitro nei confronti degli agenti eziologici, avere un effetto dimostrato da studi clinici longitudinali, raggiungere concentrazioni effettive nel fluido crevicolare, mantenere queste concentrazioni durante l’intero trattamento, non avere effetti collaterali locali o sistemici alla dosi utilizzata e mostrare un beneficio evidente rispetto ai trattamenti convenzionali. Nonostante venga soddisfatta la maggior parte di questi requisiti, è importante informare che non esiste sufficiente evidenza scientifica che consenta di stabilire criteri di somministrazione, dosi e durata degli antimicrobici in odontoiatria. Inoltre, la grande differenza nei profili di resistenza agli antibiotici nei batteri di diversi paesi europei, rende difficile stabilire protocolli clinici generali.

 

DENTAID: R+S+i 
Considerando l’attuale problematica mondiale riguardo la resistenza agli antibiotici nei batteri, il Dipartimento di R+S+i di DENTAID ha avviato una linea di ricerca basata sulla ricerca e caratterizzazione dei geni di resistenza nei batteri del cavo orale. DENTAID dispone del laboratorio più avanzato in Spagna nella ricerca in microbiologia orale, dove sviluppa nuove soluzioni adattate alle necessità del cavo orale della società attuale.

 

D.ssa Vanessa Blanc e Dott. Rubén León Dipartimento di Microbiologia (DENTAID)

Chiavi per diagnosticare, prevenire e combattere la ipersensibilità dentale

L’ipersensibilità dentale è una condizione orale che può influenzare in maniera significativa la qualità di vita dei soggetti che ne sono affetti. Presentiamo le chiavi per stabilire la diagnosi corretta e per aiutare i pazienti a prevenirla e a curarla in modo adeguato.

L’ipersensibilità dentinale (ID) o ipersensibilità dentale si manifesta come dolore acuto e transitorio la cui insorgenza dipende dall’esposizione della dentina ad agenti termici, tattili, osmotici, chimici o a stimoli evaporativi, che non può essere associato a nessun altro disturbo o malattia (1).

L’ID può avere ripercussioni gravi sulla salute orale e sulla qualità di vita delle persone che ne sono affette. Può essere particolarmente fastidiosa durante i pasti portando il paziente a ridurre l’assunzione dei cibi e delle bevande preferite, influenzandone in questo modo lo stato d’animo. Si può accusare dolore anche durante la pulizia dei denti e addirittura inspirando aria. Per evitare il disagio, il paziente tende a prestare meno attenzione alla pulizia dei denti, riducendone l’efficacia e favorendo l’accumulo di placca dentale che aumenta il rischio di carie cervicali, gengiviti e parodontite.

L’ID può colpire una persona su quattro della popolazione complessiva. Colpisce soprattutto donne giovani tra i 18 e i 30 anni, e i denti più suscettibili sono in genere i canini e i premolari(2).

Tra i pazienti degli studi dentistici, i più colpiti da ID sono i soggetti affetti da parodontite (60-98%). Dopo il raschiamento e la levigatura radicolare, l’ID può colpire un 55% dei pazienti e fino a un 88,2% dei pazienti sottoposti alla chirurgia parodontale. In un 12% dei casi può essere motivo di abbandono del mantenimento parodontale.

EZIOLOGIA E CAUSE 

L’eziologia dell’ID è attribuita alla recessione gengivale e all’esposizione della dentina all’ambiente esterno a causa della perdita di smalto che copre la corona e della perdita del cemento dentale.

In questi casi i tubuli dentinali restano esposti o aperti permettendo la comunicazione tra l’ambiente orale e la polpa del dente. In questo modo il movimento del fluido tubulare contenuto nei tubuli produce una stimolazione delle fibre A-delta raggruppate attorno agli odontoblasti, trasmettendo l’impulso nervoso alla polpa dentale e provocando una sensazione dolorosa(3). Pertanto uno stimolo di tipo termico, chimico o tattile che in condizioni normali non provocherebbe nessun dolore, procura un dolore molto intenso che si limita alla durata dello stimolo.

La causa principale della perdita dei tessuti duri è l’abrasione, soprattutto a livello del colletto dei denti e in combinazione con l’erosione, l’attrizione (fisiologica o patologica), l’abfrazione sui colletti dentali provocata da trauma occlusale e l’erosione causata da sostanze acide, sia intrinseche che estrinseche.

La recessione gengivale può dipendere da diversi fattori quali l’abrasione, causata da una pulizia aggressiva e inadeguata dei denti, un biotipo gengivale sottile, alcuni processi parodontali e la trazione dei frenuli labiali nelle zone con poca gengiva cheratinizzata.

DIAGNOSI 

La diagnosi dell’ID si effettuerà in base alla procedura seguente:

  1. Si inizierà dalla raccolta di una storia clinica dettagliata volta a identificare le malattie e i disturbi più significativi, come, per esempio, le situazioni in cui si presentano diversi episodi di vomito. È importante anche prendere in considerazione i farmaci assunti dal paziente, lo stile di vita e le abitudini alimentari che prevedono l’assunzione di cibi acidi che possono dare luogo ai fenomeni di ipersensibilità dentale.
  2. Si eseguirà poi la anamnesi e si chiederanno informazioni sul tipo di dolore accusato dal paziente: com’è, quando insorge, che cosa lo provoca e quanto dura. Si descriveranno anche il tipo e la frequenza dell’igiene orale quotidiana seguita dal paziente.
  3. Si procederà ora con l’esame clinico per scartare la possibilità di altre malattie, come carie, gengivite o pulpite che presentano gli stessi sintomi dell’ID. Si verificherà anche se esistono lesioni come abrasione, erosione o recessione gengivale nei denti interessati.
  4. Per confermare qual è il dente e la zona colpita si possono riprodurre gli stimoli che causano sensibilità mediante acqua fredda, aria, stimolo tattile con sonda, ecc. A questo punto sarà possibile stabilire la diagnosi differenziale dell’ID e, se confermato, si proseguirà con la gestione clinica.

MISURE DI PREVENZIONE 

Prima di iniziare il trattamento è necessario stabilire una serie di misure di prevenzione per prevenire l’occorrenza e la cronicità del processo. A tal fine è necessario mettere in atto un cambiamento delle abitudini ed evitare i fattori di predisposizione. È importante evitare le cause che determinano l’esposizione e l’apertura dei tubuli della dentina all’ambiente orale, migliorando in questo modo l’efficacia del trattamento clinico. Il trattamento prevede una consulenza nutrizionale, qualche istruzione per una corretta igiene orale e la correzione delle cattive abitudini.

A livello alimentare si deve eliminare o ridurre l’assunzione di bevande e di cibi acidi, inclusi quelli che non sembrano acidi e vengono consumati nella dieta abituale, come yogurt, vino bianco e rosso, bevande gassate, ecc. È importante, inoltre, prevenire la presenza di acidi nella bocca di pazienti che hanno episodi di vomito ripetuti, ai quali si raccomanda di bere abbondante acqua e praticare irrigazione o aerosol al posto dell’uso dello spazzolino per le zone posteriori.

Per quanto riguarda l’igiene orale quotidiana, si devono utilizzare spazzolini appropriati con setole morbide di PBT e profilo conico e un dentifricio a bassa abrasività. Le tecniche di spazzolamento saranno simili a quelle del trattamento della parodontite, e prevedono il posizionamento delle setole a livello del solco per eliminare la placca dal margine gengivale, come nella tecnica di Bass. Si raccomanda di attendere almeno 10 minuti dopo i pasti o dopo l’assunzione di bevande con sostanze acide prima di lavarsi i denti. In questo modo la saliva può attenuare l’abbassamento del pH che si crea e favorire la precipitazione dei sali minerali sulla superficie dei denti. Si eviterà quindi l’eliminazione dello smalto e della dentina a causa dello spazzolamento e si preverrà l’abrasione dei colletti dentali.

In ultimo, al fine di correggere le cattive abitudini, si raccomanda di evitare l’uso di stecchini, di mangiarsi le unghie o mordere le penne, i piercing orali e, in caso si bruxismo, correggerlo mediante una ferula di scarico.

TRATTAMENTO 

Per quanto riguarda il trattamento dell’ID, si inizierà sempre da trattamenti meno invasivi. Qualora la situazione non si risolva, saranno utilizzate tecniche e procedure di maggiore penetrazione.

Per il trattamento clinico si possono utilizzare creme, collutori e gel desensibilizzanti che possono svolgere due azioni. In primo luogo, e come tipo di trattamento più classico, si utilizzano i sali di potassio che esercitano un’azione chimica sui tubuli dentinali aperti. Il potassio è in grado di elevare la soglia di eccitazione delle fibre nervose tramite la pompa sodio-potassio e di ridurre in questo modo la trasmissione dell’impulso nervoso. Questo tipo di trattamento è estremamente efficace e richiede un certo periodo di tempo prima di ottenere dei risultati.

«L’ipersensibilità dentale si manifesta come dolore acuto e transitorio la cui insorgenza dipende dall’esposizione della dentina ad agenti termici, tattili, osmotici, chimici o a stimoli evaporativi, che non può essere associato a nessun altro disturbo o malattia»

In secondo luogo, si utilizzano prodotti che svolgono un’azione di sigillo dei tubuli dentinali. Esistono diverse tecnologie, una delle più innovative è quella a base di nanoparticelle di idrossiapatite. Grazie alla loro composizione simile a quella del dente naturale, possono depositarsi intorno alla dentina peritubulare ipermineralizzata in modo da occludere l’apertura dei tubuli in modo parziale o totale, riducendo il movimento del liquido intratubulare e impedendo la comparsa del dolore. Il vantaggio è che ha un effetto immediato ed è particolarmente resistente al lavaggio e agli acidi, grazie all’unione salda con il dente.

Nel caso in cui il trattamento clinico non si riveli sufficiente per curare l’ID, si potranno eseguire altri tipi di trattamento clinico che aiutino a ridurre o a eliminare il dolore mediante il rivestimento della dentina scoperta, con resine e/o compositi che ostruiscono l’apertura dei tubuli e possono aiutare a ripristinare la morfologia del dente, con interventi di chirurgia mucogengivale per il rivestimento della radice scoperta o, in diversi casi, con una combinazione di entrambe le tecniche.

Nei casi di dolore acuto o qualora sia limitante per la vita quotidiana del paziente, si procederà alla devitalizzazione o, da ultimo, all’estrazione del dente.

 

Dott. Xavier Calvo, Parodontologo e Medical Advisor di DENTAID